MARRAKECH: IL KOUBBA ALMORAVID

30 Mar 2020 In: Marocco

Il monumento più antico di Marrakech e l’unico esempio sopravvissuto di architettura almoravide.

Gli Almoravidi erano una dinastia berbera che poteva essere descritta come un incrocio tra monaci e soldati islamici, che fondarono la città di Marrakech nell’XI secolo. Dalla loro capitale in città, l’impero riuscì a estendere il suo dominio su tutto il Marocco e conquistò gran parte della penisola iberica. Marrakech divenne una grande capitale murata con giardini lussureggianti, magnifici palazzi e moschee, di cui oggi purtroppo non rimane nulla. Niente, tranne il Koubba.

Il Koubba Almoravid (o Koubba Ba’adiyin) fu costruito nel 1117. Questo piccolo edificio faceva parte di una perduta moschea Almoravide, che veniva utilizzata per le abluzioni prima della preghiera. Il koubba aveva un sistema di servizi igienici, docce e rubinetti. La sua acqua fu estratta da falde acquifere sotterranee e trasportata da tubi di bronzo.

Oggi l’importanza di questo edificio non è solo storica; il suo stile ha avuto anche un’enorme influenza sull’architettura marocchina. Di particolare importanza è l’abbondanza di elementi decorativi della cupola, come palme, pigne e foglie degli alberi. Negli anni a venire, questi sarebbero stati utilizzati nelle moschee e negli edifici di tutta la città. Presta molta attenzione alle forme delle finestre; sarebbero poi diventati quasi un simbolo delle dinastie Almohades e Benimerin.

Da notare anche la curiosa calligrafia che copre la fondazione koubba, che include la più antica iscrizione corsiva nella scrittura Maghrebi trovata nel Nord Africa.

Il koubba si trova nella Medina vicino a numerosi musei e alla Madrasa di Ben Youssef.

Fonte: atlasobscura.com

FLORIDA – LA SPIAGGIA DI SARASOTA

29 Mar 2020 In: Stati Uniti

Questa spiaggia di conchiglie colorate sembra uscita da una fiaba

C’è una spiaggia in Florida che conserva le conchiglie color pastello più belle del mondo. Siamo a Sarasota e sembra davvero di camminare in luogo fiabesco

L’universo magico di Sarasota

Longboat Key stupisce e incanta: lungo chilometri di spiaggia bianca si posano delicate conchiglie dai colori pastello. L’autrice si chiama la fotografa Sheila, alias Followmetolongboatkey

Le conchiglie di Longboat Key

Sulla costa di Sarasota sono moltissime le conchiglie che ricoprono la sabbia fine, un dono della natura che fa letteralmente impazzire la popolazione e i turisti

Caccia alle conchiglie

Chi arriva su questo tratto di costa pratica una vera e propria caccia alle conchiglie. Questo dono della natura è un tesoro.

Varietà delle conchiglie

Dai denti di squalo a conchiglie dalle sfumature del color corallo, questi tesori hanno forme e dimensioni differenti. Sarà davvero difficile scegliere quale sia la più bella!

Come identificare le conchiglie

Sono tantissime le varietà che si trovano a Sarasota, tra queste Whelk, Olive, Sunray, Venus, Scallops, Coquina, Auger e molte altre. Per identificarle, il metodo migliore è quello di andare a caccia con una guida dedicata ai gusci marini.

La Sand Dollar

Una delle conchiglie più famose della riva di Longboat Key è la Sand Dollar. Basta dare un’occhiata ai profili Instagram di chi frequenta la cosa per averne la conferma.

La spiaggia più instagrammabile della Florida

Longboat Key e le sue conchiglie fanno impazzire proprio tutti. Sono tantissimi gli influencer che scelgono questa spiaggia della Florida per scattare splendide fotografie ai gusci dai colori che incantano.

Rispettare la natura

I gusci di Sarasota possono essere raccolti da tutti, occorre soltanto fare attenzione che all’interno della conchiglia non ci sia qualche creatura vivente.

Un dono della natura

Anche voi potrete raccoglierle per un ricordo o fare un regalo speciale.

Fonte: siviaggia.it

Le colline irlandesi si sono trasformate
nel più grande quadro digitale al mondo

Anche Galway, Capitale europea della cultura 2020, ha dovuto sospendere la programmazione dei suoi eventi a causa dell’emergenza coronavirus. Ma questo non ha impedito all’artista Kari Kola di creare meraviglia con la sua Savage Beauty, un’opera d’arte digitale con cui ha trasformato le colline irlandesi del Connemara nel più grande quadro al mondo.

In pochi fortunati hanno potuto assistere dal vivo all’incredibile spettacolo. Le colline hanno iniziato a brillare di verde, blu e viola, accendendo la notte irlandese e riflettendosi all’infinito nell’acqua. Per tutti gli altri, l’installazione site-specific – la più grande opera d’arte digitale mai creata – è stata, ed è tutt’ora, visibile on-line.

Savage Beauty prende il nome dal poeta Oscar Wilde che descrisse Connemara come, appunto, «una bellezza selvaggia». Kari Kola ha diretto oltre 2000 progetti digitali in scenari drammatici, tra cui l’illuminazione di Stonehenge e la cerimonia di apertura dell’Anno della Luce a Parigi. Per creare questa installazione speciale sono serviti mille proiettori di luce, distribuiti lungo 5 chilometri di colline, con l’intento di trasformare le colline in una tavolozza di colori vibranti e pulsanti.

Erano servite due intense settimane di lavoro, in condizioni meteorologiche decisamente difficili, per predisporre il tutto, e sarebbe stato un vero peccato perderlo. «Dal momento che non sono capace a dipingere, dipingo con la luce», ha dichiarato l’artista. «Mi interessa anche la luce in sé, oltre al suo valore artistico. Con la luce astratta si possono raccontare tante storie. E a me piace lavorare con la natura perché è la migliore arte che abbiamo a nostra disposizione».

Fonte: lastampa.it

A soli 20 minuti da Belfast c’è tutto un mondo da scoprire. Lussureggianti tappeti verdi di zostera ondeggiano dolcemente cullati dalla brezza che accarezza le sponde del “mare interno” della Contea di Down. Con i suoi paesaggi acquatici pieni di vita selvatica, le sue colline ricche di 9.000 anni di storia, le fonti sacre e le antiche abbazie, la bellezza di Strangford Lough è davvero senza tempo…

Una bellezza naturale

Strangford Lough, riconosciuto come “Area di straodinaria bellezza naturalistica” e “Sito di speciale interesse scientifico”, è una delle regioni d’Europa più ricche di biodiversità, con oltre 2.000 specie marine diffuse per oltre 150 km². Eppure, nonostante la presenza di uccelli, tassi, foche e storni, questo è un luogo di incredibile calma. 

Forse grazie alle sue dimensioni, il fecondo Strangford è da millenni un luogo ricco di vita, che ha attirato artisti, aristocratici, santi, peccatori –  e persino Vichinghi! Fermati un attimo lungo la riva scintillante e lasciati pervadere dalla storia di questo luogo leggendario le cui fertili sponde sono impreziosite da un’esplosione di ginestre, timo selvatico, millefoglio e acetosa.

Al centro della storia

Ben 365 ettari della riva est del lago sono occupati dalla gloriosa dimora settecentesca e dai giardini di Mount Stewart House. Ricca di decori lussuosi, la dimora vanta una collezione da 15.000 pezzi tra dipinti, mobili e porcellane ed è un raffinato mix di stili internazionali. Al suo esterno, altrettanto stupefacenti sono i lussureggianti giardini.

Questo arcobaleno di colori, apprezzato per la sua varietà e bizzarria, è popolato da enkianthus, azalee, sequoie californiane, aceri giapponesi– e dalla vigna più antica d’Irlanda. Ci sono persino due ulivi, uno dei quali cresciuto da un seme raccolto proprio sul Monte degli Ulivi. Un angolo davvero speciale è il giardino all’italiana, in cui l’amore di Lady Londonderry per il ‘Bel Paese’ si esprime attraverso un deliberato omaggio ai Giardini di Boboli di Firenze.

Semplicemente delizioso

Strangford Lough si trova nel cuore di una delle zone coltivabili più fertili dell’isola d’Irlanda, perciò non sorprende che la cucina in questi luoghi da sogno sia di livello eccezionale.

Il protagonista principale è il pesce: succulenti gamberi di Portavogie e rinfrescanti ostriche di Ardglass trasportano il sapore del lago salato direttamente sulla tavola. Ma – credeteci – non sono da meno i prodotti delle fattorie locali, in particolare l’umile patata di Comber, che si è di recente guadagnata il riconoscimento di IGP europea. Ricco burro di Abernethy mescolato a soffici patate farinose; cremoso formaggio di capra di Leggygowan e deliziosa carne di cervo di Finnebrogue. Riuscirai a non spazzolare anche le briciole nel piatto?

Fonte: www.ireland.com/it

I reali del Bhutan sono diventati di nuovo genitori qualche giorno fa. E qui vogliamo raccontarvi la loro bella storia d’amore

Jetsun Pema, 30 anni, la più giovane regina del mondo, ex borghese, ha appena dato alla luce il suo secondo figlio. Un altro maschio. Il primogenito, il principe Dragon Prince Jigme Namgyel Wangchuck oggi ha quasi quattro anni ed è l’erede al trono. Per Jetsun, re Jigme Khesar Namgyel del Bhutan, 40 anni, ha rinunciato alla poligamia. Quella dei Kate Middleton e William dell’Himalaya è una bellissima storia d’amore.

Dieci anni di differenza, Jigme si è innamorato di lei quando Jetsun aveva solo 17 anni. Ma in realtà i loro sguardi si erano incontrati molti anni prima, quando Jetsun aveva solo sette anni. Erano in un parco di Thimphu, la capitale del Regno che al posto del PIL misura il FIL, la felicità interna lorda. Appassionata di belle arti, pittura e pallacanestro, Jetsun è stata capitano della squadra di basket durante gli anni scolastici. I due si rincontrano quando lui è già re da due anni. Nonostante la giovane età – è nato nel 1980 – suo padre gli ha lasciato il trono di una nazione che si è da poco aperta verso modernità. Jetsun lo cattura con quel suo viso perfetto, il corpo minuto, i modi gentili.

I due iniziano una relazione segreta, ma lei chiede tempo: vuole volare a Londra per studiare Relazioni internazionali, Psicologia e Storia dell’Arte al Regent’s College. Jigme la accontenta: sente di aver trovato l’anima gemella, anche se si tratta di una borghese. Nel 2011 Jigme non può più aspettare, cosi lei accetta di sposarlo. «Molti hanno la loro idea di come dovrebbe essere una regina: straordinariamente bella, intelligente, aggraziata. Per me conta che come individuo sia un buon essere umano, mentre come regina che sia pronta a servire la sua gente e il suo Paese. fa sapere il re al Parlamento nell’annunciare le loro nozze.

Si sposano nello stesso anno di Kate Middleton e William. Nel mese di ottobre, però, quando l’allineamento dei pianeti è il più favorevole ai segni zodiacali degli sposi, dopo una notte di luna piena. Quel giorno non ci sono principi stranieri tra gli invitati, ma dopo la cerimonia, gli sposi escono per salutare personalmente il popolo bhutanese. Il re descrive così sua moglie: «È un essere umano meraviglioso e intelligente. Condividiamo una grande cosa in comune: l’amore e la passione per l’arte». Poi chiede il permesso di baciarla in pubblico. Per amore, re Jigme fa un altro gesto: sebbene la legge del Bhutan consenta la poligamia, lui giura solennemente di voler rinunciare al diritto di prendere altre mogli. «Ho scelto lei e lei soltanto». Potere del vero amore.

Fonte: vanityfair.it di Stefania Saltalamacchia

Le pareti dell’iconica cupola sono vuote e hanno una scala segreta

Viste dall’esterno le pareti di marmo della cupola del famoso edificio del Campidoglio degli Stati Uniti sembrano solide e compatte. Ma il guscio è in realtà vuoto, realizzato in metallo, verniciato di bianco e supportato come un grattacielo da una struttura in ferro. Lo spazio stretto tra la facciata esterna e le pareti interne contiene delle scale con 365 gradini.

Interno delle pareti della cupola

Sulla sommità della cupola le scale conducono ad una piccola stanza conosciuta come il Tholus. Questo punto panoramico rotondo è la proiezione verticale che si vede tra la parte circolare della cupola e la Statue of Freedom. Il governo ha pubblicato diverse foto nel corso degli anni dal Tholus guardando verso l’esterno, ma c’è solo una foto misteriosa in circolazione che mostra l’interno del Tholus. Basato su piani architettonici del 1860, è semplice, ma sarebbe comunque interessante intravederne l’interno.

L’unica immagine all’interno del Tholus

La familiare struttura attuale è in realtà la seconda cupola del Campidoglio. Il cosiddetto Bulfinch Dome originale era più piccolo, fatto di legno e rivestito di rame. I lavori iniziarono sulla seconda cupola, più verticale, nel 1855 e fu completata nel 1863 durante la guerra civile americana. Il ferro è stato selezionato come materiale da costruzione perché era ignifugo, oltre che più economico e leggero della pietra.

L’interno della cupola era un tempo aperto al pubblico, ma secondo la Capitol Historical Society degli Stati Uniti, “così tante persone sono cadute e hanno dovuto essere trasportate al pian terreno e così tanta spazzatura è stata gettata di sotto, che l’area è stata chiusa.”

Circa a 3/4 della scala, c’è una porta che, all’apertura, conduce in una passerella a 360 gradi, all’interno della Rotonda. Ci si trova appena sotto i grandi dipinti all’interno della cupola, guardando in basso si vedono tutti i turisti, ecc. Questa passerella era la destinazione principale per il 99 percento dei visitatori della cupola, in passato. Inoltre, c’è un’altra piccola porta che si apre sulla passerella a 360 gradi, all’esterno della cupola. Come si può immaginare, la vista da questo punto è spettacolare. Questa passerella esterna è ancora occasionalmente utilizzata come un buon punto di vista per i fotografi ufficiali e altri funzionari governativi.

Interno a cassettoni della Rotonda
Interno della cupola di fronte alle scale
Durante il restauro della cupola nel 1960
Winifred e Gertrude Morrissey sulla cupola nel 1926
Dettagli della scala del Tholus

Fonte: atlasobscura.com

Un team di ricercatori della Brown University e della Brandeis University ha scoperto le rovine perdute di una capitale Maya nel cortile di un allevatore di bestiame messicano.

Professore associato di antropologia, Charles Golden e il bioarcheologo Andrew Scherer ritengono che il sito (ora chiamato Lacanja Tzeltal) fosse la capitale del regno di Sak Tz, situato in quello che oggi è lo stato del Chiapas, nel sud-est del Messico.

Sak Tz’i’ era un regno minore dei Maya, le rovine sono certamente più modeste rispetto ai siti più grandi di Palenque e Chichén Itzá.

Il primo insediamento risale intorno al 750 a.C. e successivamente la città rimase in continua occupazione per 1000 anni. Era costituita da un palazzo reale, un campo da ballo e le rovine di diverse piramidi, la più grande delle quali troneggia ad una altezza di 14 metri.

Il team ha anche scoperto varie strutture domestiche utilizzate dall’élite della città e siti religiosi usati per i rituali. Nel centro della città c’era la “Plaza Muk’ul Ton”, o Monuments Plaza, un cortile di 1,5 acri dove le persone si radunavano per le cerimonie.

Finora, tra le rovine sono state trovate dozzine di sculture, sebbene molte siano state danneggiate dai saccheggiatori o degradate nel corso dei millenni da pioggia, incendi boschivi e lussureggiante vegetazione tropicale.

Con il permesso del governo messicano e della comunità locale, Golden, Scherer e il resto del loro team hanno in programma di tornare a Sak Tz’i’ nel giugno 2020. Il team continuerà a sorvegliare la città usando LIDAR (rilevamento della luce e raggio d’azione) e a ricercare nuovi reperti che si presume si trovino sotto la fitta vegetazione della giungla.

Fonte: heritagedaily.com – Charles Golden

NAMIBIA: LA TERRA SUBLIME

26 Mar 2020 In: Namibia

Un viaggio in Namibia compone un atollo costellato da decine di isole geologiche, faunistiche e climatiche

Quando nel 1921 il geologo ed esploratore Reinhard Maack scoprì, su uno dei fianchi roccio­si dell’altopiano del Damaraland, un’impressionante successione di incisioni rupestri, non poteva sa­pere che questo luogo contraddistinto dalle accensio­ni rossastre dell’arenaria e dai riflessi rosa del granito, avrebbe trovato un nome solo dopo la seconda guerra mondiale.

Un luogo contraddistinto dalle accensio­ni rossastre dell’arenaria e dai riflessi rosa del granito

La selvaggia bellezza della Namibia

Fu grazie a un fattore di origine sudafrica­na, David Levin, che per primo decise di stabilirvi il ranch chiamandolo Twyfelfontein, in lingua afrikaan “sorgente incerta”, che attualmente è non solo uno dei più straordinari siti di incisioni rupestri dell’Africa australe, ma emblema della bellezza selvaggia di tutta la Namibia. Volto e rimescolamento carnale di cui i petroglifi sono traccia indelebile, inscritti in luoghi in cui è possibile incontrare gli stessi kudu e giraffe che più di 5000 anni fa erano oggetto dei riti sciamanici dei San, spesso conosciuti come boscimani.

Ma oltre a sancire l’antica presenza di questo popolo di cacciatori seminomadi la cui linea genetica porta agli antenati comuni di tutta l’umanità, nel Dama­raland l’esplosione di sfumature cromatiche e forme sconcertanti – alcune rocce tonde richiamano alla mente i cartoon dei Flinstones – sono una espressione di libertà assoluta. La cifra distintiva dell’anima po­lifonica della Namibia, che nella lava e nei fenome­ni erosivi ha avuto il reagente. Un Paese grande tre volte l’Italia e con soli due milioni di abitanti, in cui i paesaggi scivolano uno sull’altro: dalle montagne a cima piatta del Damaraland, alla savana del Kalahari, passando per la scarpata dell’altipiano centrale e l’immenso deserto del Namib, un viaggio in Namibia compone un atollo costellato da decine di isole geologiche, faunistiche e climatiche.

Collegate tra loro da strade sterrate che sono cresciute come un rampicante lungo il Paese, mettendo in contatto popoli divisi da secoli di rivalità, regioni abitate da animali rarissimi, quali il rinoceronte e il ghepardo, e persino fasce costiere in cui è proibito l’accesso, consegnate alla sola raccolta dei diamanti. D’altra parte se la Namibia è rimasta un protettorato del Sud Africa fino al 1991, è proprio a causa dei diamanti, che oggi insieme all’uranio contribuiscono a fare dell’estrazione la prima voce dell’economia. Ma prima di tutto questo, molto prima – i diamanti sono stati scoperti solo un secolo fa – c’è stato il setaccio della preistoria che attraverso sollevamenti tettonici, camini vulcanici ed erosione ha permesso l’affioramento di rocce e minerali databili centinaia di migliaia di anni.

Tra falesie erose dal vento e canyon profondissimi, di cui il Fish River è il fratello maggiore, in Namibia si alternano gole dal fondo verdissimo e creste di dole­rite nera e spigolosa

Una terra inospitale e sublime

Tra falesie erose dal vento e canyon profondissimi, di cui il Fish River è il fratello maggiore, in Namibia si alternano gole dal fondo verdissimo e creste di dole­rite nera e spigolosa. E dove non c’è roccia, ci sono la sabbia e l’oceano a rendere inospitale e sublime que­sta terra. La Skeleton Coast è come una mappa aperta su centinaia di relitti, causati dalla fitta nebbia e dalla furia dell’oceano: ha qualcosa di spettrale e segna un quasi totale abbandono della civiltà. Oltre, solo colo­nie di otarie, elefanti del deserto, immensi parchi (di cui l’Etosha, più ad est, è il gioiello) e villaggi him­bal’unica popolazione immune al progresso, le cui donne continuano a spalmarsi la pelle di ocra e grasso animale, e che vivono in piccoli e isolati villaggi.

Da una parte tradiscono l’impronta coloniale tedesca, la paura dell’irrilevanza e le successive atrocità compiute sulla popolazione locale – in particolare il genocidio degli Herero, una ferita ancora aperta tanto da aver provocato pochi anni fa la rimozione della sta­tua simbolo della capitale Windhoek; dall’altra testi­moniano il desiderio un po’ naif di voler ricreare città giardino a propria immagine e somiglianza, delle ple­asantville formato africano. Come nella graziosa Swakopmund, costruita alle soglie del Novecento in piena ambizione guglielmina. Chiamata la piccola Baviera del deserto, appare come una allucinazione nel freddo pungente che sale direttamente dal polo, tramite un ascensore naturale chiamato corrente del Benguela.

Il Namib è una creatura poetica, che attraverso una lingua – quella del silenzio – racconta la sua verità, nuda come la distesa di dune che a Sossusvlei tagliano l’orizzonte

Un mondo postcoloniale tra memoria e rinnovamento

Una dimensione lunare corroborata dalla spettacolare distesa di guglie smussate e canyon a perdita d’occhio, ai cui bordi si trova anche l’antenata delle conifere, tanto bizzarra nell’aspetto quanto unica nella definizione botanica: la welwitschia. Tra il faro e le case dai tetti appuntiti che ricordano i gloriosi tempi del kaiser, oggi Swakopmund oltre a essere il salotto di un mondo postcoloniale sospeso tra memoria e rinnovamento, è la rampa di lancio verso le meraviglie dell’Atlantico e quelle del deserto.

La ricchezza di plancton ha fatto diventare questa porzione di oceano un gigantesco forziere stracolmo di ostriche e frequentato dalle foche sudafricane, le otarie, che a Cape Cross sembrano un tableau vivant ritagliato dal polo sud e appiccicato sul bordo del deserto. Appena poco più indietro, nel Namib, l’inversione termica prodotta dalla corrente del Benguela impedendo l’evaporazione ha immobilizzato un deserto che con i suoi 80 milioni di anni è considerato il più antico del pianeta.

Il Namib è una creatura poetica, che attraverso una lingua – quella del silenzio – racconta la sua verità, nuda come la distesa di dune che a Sossusvlei tagliano l’orizzonte. Nel Namib la verità del deserto coincide con l’esperienza del deserto: la luce tenue dell’alba che sembra riversarsi nei riflessi violacei del manganese e in quelli arancioni del quarzo, il tonfo netto della sabbia che cede sotto il piede, l’ascesa paziente verso il Big Daddy – la duna più alta del mondo, con i suoi 318 metri – il caldo avvolgente, la discesa a capofitto, il ristoro all’ombra di una acacia.

Una iniziazione ancestrale che qui più che altrove ci ricorda che l’uomo è un essere infinito, ma di passaggio: esposto alla temporalità, mobile come le creste di queste dune e sempre alla ricerca di storie. Il silenzio diventa libero, nel deserto del Namib, perché puoi sentirlo parlare di te: da dove veniamo, cosa siamo, cosa avremmo potuto essere e soprattutto, sotto questa luce definitiva, ciò che non siamo più.

Un Paese grande tre volte l’Italia e con soli due milioni di abitanti, in cui i paesaggi scivolano uno sull’altro

Fonte: nationalgeographic.it

UNA VILLA ROMANTICA IN UNA POSIZIONE FANTASTICA SULLA COSTA AMALFITANA

La Costiera Amalfitana è rinomata come destinazione di viaggio di lusso per il viaggiatore esigente. Arroccato sopra le acque iridescenti del Mediterraneo, l’opulento Palazzo Avino offre lussuose sistemazioni e servizi ai visitatori della città di Ravello. Un tempo proprietà del 12° secolo per nobiltà, Palazzo Avino esemplifica il vero romanticismo e gli intrighi dell’Italia medievale e rinascimentale.

ALLOGGI SONTUOSI E CUCINA PREMIATA

La vasta gamma di 32 camere e 11 suite disponibili a Palazzo Avino offrono ai viaggiatori tutto il lusso e l’opulenza dell’antica Italia medievale. Sei stili di camere spaziose e ben arredate, offrono un’atmosfera di raffinato stile italiano. In alternativa, le sei tipologie di suite per gli ospiti sono ancora più lussuose. Ognuna delle suite offre una vista mozzafiato sul mare, alcune dal proprio balcone o terrazzo privato.

Una cucina gourmet attende ogni ospite di Palazzo Avino presso il famoso ristorante Rossellinis, il casual Caffè dell’Arte o Terrazza Belvedere e il sofisticato Lobster & Martini Bar. Ognuno di questi quattro luoghi offre un ambiente elegante, sia al coperto che all’aperto. Cenate con piatti tradizionali e unici di ispirazione italiana, che sfruttano tutti gli abbondanti ingredienti locali della Costiera Amalfitana.

ESPLORA IL WELL BEING E UN RITIRO INTIMO

Nell’ambiente più tranquillo disponibile a Palazzo Avino, gli ospiti troveranno il centro benessere e fitness Well Being, situato sulla scogliera a picco sul mare. Qui, i viaggiatori troveranno rifugio al centro benessere, che offre un menu di servizio completo e prodotti di bellezza Carita volati direttamente da Parigi. Ore di relax attendono nella sauna o nell’hammam, nelle fresche acque della piscina o nel relax nel solarium.

La clientela che desidera un’esperienza di ritiro di lusso più privata troverà la Clubhouse by the Sea. Situata a soli 15 minuti da Ravello, nella città di Marmorata, questa casa sulla spiaggia sulla scogliera offre accesso costiero senza ostacoli e servizi per ogni ospite. Con la sua piscina e ristorante, la Clubhouse by the Sea è una bella escursione offerta dallo staff del Palazzo Avino Hotel.

VIVERE L’ECCITAZIONE DEI SERVIZI DI LUSSO

Il concierge di Palazzo Avino è disponibile giorno e notte per programmare attività su misura e avvincenti in città e nei dintorni. Gli ospiti possono ritrovarsi a fare un giro in elicottero della costiera amalfitana o anche a un lussuoso tour in yacht della regione. I servizi di limousine sono disponibili per i trasferimenti e per le escursioni. L’apprezzamento della musica è vitale per la Costiera Amalfitana, in quanto tale, il concierge di Palazzo Avino è lieto di fornire i biglietti per le numerose esibizioni e festival musicali e orchestrali che si svolgono tutto l’anno.

Coloro che desiderano essere più attivi durante le vacanze apprezzeranno l’opportunità di fare trekking o andare a cavallo nella regione. Altri potrebbero voler perfezionare il loro gioco di tennis o provare le pinne durante lo snorkeling e le immersioni nel Mediterraneo. I corsi di cucina italiana e napoletana offerti a Palazzo Avino si rivelano un’esperienza utile e gustosa. I viaggiatori hanno la straordinaria possibilità di esplorare e interagire con le persone, le bellezze naturali e la ricca cultura della costa durante il soggiorno presso l’Hotel Palazzo Avino.

Fonte: xoprivate.com

Una squadra italo-egiziana ha ricostruito un capolavoro dell’antica arte egizia. Sono stati in grado di ricreare virtualmente la faccia di un leopardo che è stato trovato su un coperchio di sarcofago in una necropoli. Hanno ricreato il volto del grande gatto usando l’ultima tecnologia digitale.

Un team guidato dall’archeologa italiana Patrizia Piacentini, dell’Università di Milano, ha trovato la necropoli sotto le sabbie del deserto non lontano da Aswan. Il luogo di sepoltura è stato portato alla luce da una profondità di circa 5 metri. Secondo Ansamed, la necropoli “si estende per oltre 25.000 metri quadrati sulla riva occidentale del fiume Nilo, vicino al Mausoleo dell’Aga Khan III”.

Oltre alla rete di tombe trovate sottoterra, sono state scoperte anche alcune sepolture scavate in una collina vicina. Si ritiene che il luogo di sepoltura sia stato in uso per un millennio dal VII secolo a.C. fino al III secolo d.C. quando l’Egitto era una provincia romana.

Il tesoro di una sepoltura

Ansamed riferisce che “una delle tombe, la numero AGH026, aveva già fatto notizia l’anno scorso quando fu trovata una grande sala con circa 30 corpi sepolti nel II secolo a.C.” Questo conteneva un tesoro di beni tombali, tra cui arte funeraria e una barella molto rara per il trasporto di cadaveri mummificati.

In questo sito, la squadra ha trovato un leopardo che è stato dipinto sullo stucco di un coperchio in frantumi di un sarcofago. Nell’antica cultura egizia, questo animale era il simbolo del potere e della determinazione. Live Science riferisce che la rappresentazione del predatore era “probabilmente destinata a rafforzare lo spirito del recente defunto per il viaggio verso la terra dei morti”.

L’immagine dipinta del leopardo è stata trovata in cattive condizioni e mancavano numerosi dettagli. È stato dipinto sul frammento di un coperchio del sarcofago, che era molto fragile e pieno di sabbia. Gli esperti hanno deciso di rimuovere lo stucco, con l’immagine, dal coperchio per salvare le opere d’arte. Era un compito molto delicato e avrebbe potuto facilmente andare storto. Archaeology.org cita Piacentini dicendo “è stata un’operazione molto delicata che ci ha fatto trattenere il respiro, avevamo le lacrime agli occhi”.

Ricreare la faccia di leopardo del sarcofago

Un tempo, la faccia del leopardo sarebbe stata allineata con la faccia della mummia all’interno della bara. Live Science cita la ricercatrice capo Piacentini, la quale riferisce che il simbolo del leopardo “era comune nell’antico Egitto, ma è molto raro trovarlo dipinto”. Il team ha prelevato il frammento con l’immagine del leopardo dal sito, al fine di preservarlo.

Quindi hanno deciso di utilizzare una tecnologia innovativa nel tentativo di ricostruire digitalmente il dipinto di circa 2200 anni fa. I ricercatori sono stati in grado di ricreare il leopardo, che originariamente era dipinto molto realisticamente, con colori vivaci e occhi spalancati. Piacentini ha dichiarato a Fox News “abbiamo fatto la scoperta alla fine di gennaio 2019, ma abbiamo appena terminato il restauro” virtuale “del frammento”. La ricostruzione digitale dimostra le grandi capacità degli artisti egizi e la loro capacità di creare opere d’arte realistiche e naturalistiche.

Semi di pino per l’aldilà

Sempre nella stessa tomba dove è stato trovato il dipinto del leopardo, c’era un piatto con alcuni semi di pino. Sulla base di libri di cucina di epoca romana sembra che questi fossero molto popolari e utilizzati in una varietà di cibi. È probabile che i semi siano stati collocati accanto alla sepoltura di una persona dalla sua famiglia. Gli egizi credevano che i defunti li avrebbero goduti nell’aldilà.

Il leopardo trovato ad Aswan viene ora conservato. Ilaria Perticucci e Rita Reale, entrambe conservatrici professioniste, stanno pianificando di ripristinare l’immagine negli ambienti controllati dei laboratori di Aswan. Non è noto se il dipinto restaurato sarà esposto in futuro. Nella necropoli, dove è stata trovata la straordinaria immagine, si continua a scavare da parte degli archeologi.

Fonte: Università di Milano –  Ed Whelan


Video









Cerca

Categorie

Archivio